Amaryllis DeJesus Moleski, Said the Rainbow to the Grave

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Amaryllis DeJesus Moleski si concentra su ciò che sentiamo ma non possiamo vedere. L’iridescenza metallica e i colori fluorescenti luccicano, illuminando un progetto di sopravvivenza che instilla un soffio di vita nelle mitologie antiche. Said the Rainbow to the Grave analizza e modifica i nostri parametri di riferimento e i nostri simboli per ciò che significa essere umani. L’arcobaleno urge, si riallaccia alle storie dei Taìno che parlano di riconoscimento e punizione. La storia chiede di essere nominata. I fantasmi sono in carne e autonomi, parlano dell’indicibile che è – anche – la fine.
Dalle montagne, alle lune, alle rose e ai riflessi di luce, DeJesus Moleski considera l’arcobaleno come un ponte che collega la tradizione, la terra e la dimensione spirituale. Accuratamente, ha evocato un linguaggio di spiriti e retaggio, ricordandoci come la creazione sia tanto più lenta del consumo. Il suo lavoro ripiega il tempo e la curatela sulla trasmutazione e la crescita. Coltivare queste narrazioni è un gesto radicale.
Il fuoco scoppietta e le storie rinascono, ci radicano. DeJesus Moleski si ricollega a una genealogia che sussurra, poi grida in colori saturi; e se sopravvivessimo? Senti il fruscio della palla da basket, le sneakers che squittiscono, le ossa che scricchiolano come una foresta di alberi. Rose che crescono tra le spine. Occhi che testimoniano e orecchie che assorbono.
Le ossa sono sacre, e il sacrificio supremo si avvolge tra le ampie carni delle figure.
DeJesus Moleski ci spinge arditamente a stare nella pratica di re-immaginare ciò che è andato perduto a forza di una costante attribuzione di genere e razza imposta dallo sguardo del colonizzatore. C’è una queerness senza rimorso, qui; i corpi femminili sono di origine collettivizzate, e ciò di  cui dobbiamo fare casa, una porta che dobbiamo chiamare casa, anche se desideriamo ardentemente qualcosa di più, qualcosa il cui nome è andato perduto e l’innominabile ci perseguita.
La fantasia e la spiritualità sono usate come forze fondative, mentre la vita e la morte si dibattono in ciascuna delle immagini. Attraverso il colore e il simbolo, Moleski ci ricorda che i Caraibi, in particolare l’isola di Portorico, sono sopravvissuti. È più che un ricettacolo per il piacere della gente, più di una mutazione di gioia e stravaganza; è un luogo che è anche tratta degli schiavi, luogo di lutto e annientamento. Il suo lavoro registra storie reali attraverso elementi fantastici, in cui il triviale e il profondo accadono simultaneamente; il respiro prima della tempesta e la tempesta stessa. Distruzione e rovina sono presenti, sposate, sempre, con lo spirito.
Ecco come è una tempesta da dentro. Gocce di pioggia cadono come unghie che schioccano una contro l’altra. La dea dei cieli si muove rapida e si sente sé stessa, si dimena, si stira e sospira, lascia che i suoi capelli guidino l’oscillazione dei suoi fianchi. Non stupisce che un uragano di gloriosa potenza possa parere un’agnizione, una pulizia radicale, una libertà che prorompe dall’intimo verso l’esterno.
Ogni cellula di questo corpo ascolta, ascolta, ascolta. Si tende per essere udita quando la sola cosa che ciascun follicolo può fare è ascoltare. Dì casa. Dì stanca. Dì grazia.
La genesi donna trattiene il fiato.
Il giorno viene.

(di Adeeba Afshan Rana)

 

English version


Amaryllis DeJesus Moleski concentrates on what we can feel but cannot see. Metallic iridescence and neon colors shimmer, illuminating a blueprint for survival that breathes life into ancient mythologies. Said the Rainbow to the Grave examines and alters our baseline, our symbols for what it means to be human. The rainbow is urgent, calling back to Taino stories of recognition and retribution. The story demands to be named. The ghosts are fleshy and autonomous, speaking to the unspeakable that is also the end.
From mountains and moons to roses and reflections of light, DeJesus Moleski contemplates the rainbow as a bridge between legacy, land, and the spiritual plane. She has painstakingly conjured a language of ghosts and inheritance, reminding us that creation is much slower than consumption. Her work folds time and curation into transmutation and growth. Cultivating these narratives is a radical act.
Fire crackles and stories are reborn, rooting us. DeJesus Moleski connects back to a lineage that whispers, until it shouts in saturated color; What if we survive? Hear the swoosh of the basketball, squeaking sneakers, the creak of bones like a forest of trees.
Roses grow among the thorns. Eyes witness and ears absorb.
The bones are sacred and supreme sacrifice winds between the ample flesh of figures. DeJesus Moleski boldly prompts us to be in the practice of re-imagining what has been lost in the face of constant gendering and racialization by the colonizer gaze. Here is unapologetic queerness; femme bodies are collectivized origins, are what we must make into home, a portal that we must call home, even when we crave something more, something whose name has been lost and the unameable haunts us.
Fantasy and spirituality are used as a grounding force as life and death riot across each image. Through color and symbol, Moleski reminds us that the Caribbean, particularly the island of Puerto Rico has survived. It is more than a receptacle of people’s pleasure, more than a mutation of joy and flamboyance; it is a place that is also of the middle passage, of plunder and grief and erasure. Her work records real histories through fantastical elements where the mundane and profound occur all at once; the breath before the storm and the storm itself. Destruction and demise are present, married always to spirit.
This is what a storm feels like from the inside. Rain drops fall like nails clacking against one another. The goddess of the skies is moving fast and feeling herself, twerking and stretching and sighing, letting her hair guide the shift of her hips. No wonder a good-ass thunderstorm feels like a reckoning, like a washing new and clean, like freedom from the inside out.
Every cell in this body is listening, listening, listening. Is straining to be heard when all every follicle can do is listen. Say home. Say tired. Say grace.
Femme Genesis holds its breath.
The day comes.

(by Adeeba Afshan Rana)