La Sublimazione della Tecnica
Di Alessandro Facente
Del lavoro di Davide Balliano trovo molto affascinante quel meccanismo che permette alla sua dimensione formale, ma in particolar modo alle sue geometrie minimali, di espandersi ad un livello tale da superare il loro stesso formalismo.
Le domande che mi sono sempre posto sono le seguenti. Cos’è che si scatena nell’interazione retinica, per cui ci sia bisogno di andare oltre ciò che è già evidente nell’opera? Cosa scaturisce in quelle linee, che curvando, danno vita a qualcosa di più ideale che le spirali ottiche risultanti non siano già di per sé in grado di esprimere? Cosa accade, insomma, nell’osservatore, quando riprodotte pazientemente a mano, tali geometrie vengono ricoperte sotto un strato vaporoso di gesso bianco che rivela solo vagamente le forme sottostanti? E cosa, infine, ci convince – pur senza l’evidenza di una sua traccia – che quel che c’è da vedere non sono quei piani, volumi e rette, ma ciò che piani, volumi e rette suggeriscono al nostro immaginario?
La risposta sta in quello che possiamo definire uno slittamento tra le due dimensioni del formale e del concettuale. Ed esso è possibile nel momento in cui la tecnica diventa lo strumento essenziale attraverso cui l’immagine viene trattata per evolvere da una condizione formale ad una invece sublimata.
Descrivere la struttura compositiva delle opere in questione può illustrare il senso di questa lettura. Pur apparendo, ad esempio, come una superficie piatta, l’opera di Balliano, al contrario, è frutto di un lungo e laborioso processo tecnico legato ad una temporalità scandita da vari passaggi coincidenti con la creazione di una struttura. Ad uno sguardo ravvicinato, si può infatti notare come gli strati di colore e gesso si accumulino l’uno sull’altro in una cronologica sequenza di micro spessori. La forma finale è quindi la rivelazione di un percorso, che partendo dal fondo della tavola, si irrobustisce progressivamente verso l'alto.
A questa mutazione dell’immagine compiuta per successione di materiali impiegati, si accompagna la composizione grafica dei soggetti “ritratti”, che pur rimanendo familiare per la sua espressività elementare, si anima a livello retinico, ipnotizzando l’occhio con sfuggenti riflessi cinetici.
Ecco, dunque, che, già nella fase compositiva, l’opera si predispone ad un racconto che in essa è intrinseco, portandoci in ciò che invece di estrinseco ci introduce alle sue trasformazioni, evoluzioni visive e contraddizioni percettive. È, insomma, la constatazione di tutta questa fenomenologia a produrre dell’opera il suo racconto più grande e vero.
Nel Tractatus logico-philosophicus (1921), Ludwig Wittgenstein definisce il mondo come “determinato dai fatti e dall’essere essi tutti i fatti” e trova il senso dell’immagine “nell’essere i suoi elementi in una determinata relazione l’uno all’altro”. In questo senso, un approccio speleologico è incoraggiato sin dai fondamenti della costruzione dell’opera, portando così alla luce l’intreccio essenziale dei suoi “fatti” e “relazioni”. Ciò predispone l’opera in una traiettoria più argomentativa consentendo una lettura di maggiore complessità, capace di portare l’oggettiva espressività formale verso un’analisi di quei possibili contenuti che rendano il racconto anche soggettivo, caricandosi così di attributi filosofici, ma anche politici, sociali e addirittura spirituali.
Non è un caso infatti, che in una delle nostre conversazioni nel suo studio, Balliano abbia spesso fatto cenno alla sua intenzione di rendere il lavoro più contemplativo. L’obiettivo è spingere il visivo all’annullamento totale di tutti i possibili riferimenti al reale, così da diventare un’immagine autonoma, libera totalmente da una idea di realtà acquisita; aliena, cioè, ad ogni realtà che non sia quella che l’immagine stessa produce apparendo per come è espressa e recepita dallo spettatore. Si dà corpo così ad un dispositivo assoluto, il cui linguaggio è indipendente da ogni circostanza nota; un veicolo per scoprire un soggetto ulteriore, ancora ignoto, astratto e figurato allo stesso tempo che, pur esistendo nell’immaginario, non esiste ancora nella realtà.
Una riflessione simile si può trovare precedentemente in Gerhard Richter che ai tempi di Documenta 7 (1982) scrive dell’arte astratta come un veicolo per “accedere al non visualizzabile, all’incomprensibile, utilizzando una forte immediatezza visiva per dipingere il nulla. Abituati a immagini nelle quali riconosciamo qualcosa di reale, ci rifiutiamo di considerare i meri colori (per quanto vari) come oggetti visualizzati. Preferiamo, invece, accettare il fatto che stiamo vedendo l’invisibile; ciò che non è mai stato visto prima e che non è visibile. Non si tratta di una sorta di gioco astruso, ma di una vera e propria necessità; l’ignoto ci spaventa, ma ci riempie anche di speranza, così accettiamo le immagini come un possibile mezzo per rendere l’inspiegabile più spiegabile, o quantomeno più accessibile”.
In Balliano la dimensione del non visualizzabile viene superata in un modo per cui, così concepita, l’immagine vive uno status di emancipazione. Per tale ragione, la sua pittura non è mai soltanto l’illustrazione di una forma e di una linea, ma il progetto preciso di una forma e di una linea. In questo senso, astrattismo, figurazione e minimalismo, agiscono come un unico linguaggio, che di tali forme e linee, da vita al principio, fondamenti e sostanza della loro struttura visiva. Presenze reali che occupano uno spazio con la stessa risolutezza di un oggetto fisico, denunciando la propria esistenza come l’evidenza di una testimonianza oculare.
In fondo, Balliano ci mette di fronte a geometrie apparentemente lontane dalla realtà che, tuttavia, di essa sono essenzialmente una sintesi assoluta. E in questa ricerca dell’assoluto delle forme c’è tutto il senso di quella analisi “nella profondità dell’uomo” di cui egli mi parla in continuazione durante le nostre conversazioni. C’è tanto di quella mistica e contemplazione del sacro, su cui l’artista molto spesso insiste, nell’ossessivo dualismo di quei neri e bianchi, che ripetendosi idealmente, superano i limiti della tavola, puntando ad una eternità sacrale o più precisamente sacra, con tutto il suo portato rituale. E a proposito, ripenso a quando Balliano mi dice: “Mi interessa l’anacronismo del fare a mano”, sintetizzando con questa frase, tutto ciò che davvero c’è da sapere del suo lavoro, compresa la pratica quotidiana della pittura, i suoi tempi e stratificazioni.
Ecco che le forme geometriche a cui assistiamo, pur nella loro freddezza e irraggiungibilità disumana, nella loro dimensione sublime e castigatezza quasi ascetica, nella loro semplicità e modesta purezza, di umano hanno molto, in quanto realizzate con il desiderio umano di generare.
Tutto ciò non sarebbe mai possibile se, al contrario, il lavoro si sviluppasse sui presupposti dell’automatismo. I lavori non avrebbero lo stesso peso, e cambierebbero radicalmente di senso, se l’artista procedesse meccanicamente, seguendo ad esempio le regole della serigrafia.
Eliminando il processo manuale alla base della sua pratica, la lenta preparazione di stucco, seguita dal disegno a grafite prima ed ad inchiostro dopo, le campiture di gesso nero, come anche lo stucco finale a velare il disegno che poi, scartavetrato via, rivela nuovamente l’immagine regalando, di ritorno, un universo di graffi e coagulazioni di materia. Facendo a meno di tutta questa laboriosità, si andrebbe quindi a perdere proprio quella dedizione che viene impiegata per portare il lavoro al suo bilico tra perfezione e imperfezione, e che renderà umano, ciò che apparentemente non lo è.
Si è molto discusso in studio di questi argomenti, e Balliano ha legato ad essi un concetto molto preciso, quale quello della crisi, o come lui stesso definisce, dello “stordimento” dell’uomo occidentale. Il decadimento della civiltà, le sue pulsioni e ideali - spesso provenienti dalle credenze, anche religiose, su cui le generazioni passate si erano invece profondamente formate – rappresenta un vuoto da navigare all’interno di nuovi principi ancora lontani, in cui l’uomo ha smesso di rappresentare qualcosa finendo, nell’orizzonte della tecnica, per scomparire quasi del tutto.
In questo contesto, l’idea di proporzione diventa un elemento cruciale per capire l’essenza e il significato di quelle forme geometriche, che occupano l’intera superficie delle tavole realizzate dall’artista. Tale rapporto con le proporzioni può essere reso con un esempio semplicissimo, quello delle città. Se le si guarda dalla strada, costituiscono una moltitudine di forme, suoni, luci e dettagli al di sopra della comprensione umana. Se, invece, si mette una distanza tra esse e l’osservatore, si inizierà a comprendere di quelle stesse città la geometria, e dunque una rappresentazione che ne permetta una lettura comprensibile.
Ecco che le strutture tracciate dall’artista istituiscono la speranza che un ordine, una razionalità, delle spiegazioni possano esserci ancora. Non importa quanto enormi siano o se mai ci sarà la possibilità di comprenderle a pieno; quello che importa è la presenza di un punto di osservazione che permetta di coltivare l’istinto alla volontà di comprensione. È in questa spinta che l’arte rappresenta un vettore di elevazione rispetto ai fallimenti della civiltà nel suo evolversi. La pratica dell’artista agisce, infatti, proprio dove la società non riesce. A creare, cioè, armonia, coesistenza, giustapposizione, simmetria e vita. Utopie che trovano terreno fertile nella pratica dell’artista, rimettendo visivamente in discussione il fatto che tali principi siano ancora possibili.
Quando Balliano mi ha invitato a scrivere un testo sul suo lavoro, mi trovavo a São Paulo, in Brasile. Il pomeriggio del giorno in cui ricevetti la sua e-mail, avevo in programma di visitare Ibirapuera Park, il parco centrale della città, dove Oscar Niemeyer ha dato corpo ad alcuni degli esempi più rigorosi del modernismo architettonico in Brasile. Passeggiando nel famoso camminamento di 620 metri costruito per connettere gli edifici, ragionavo su come quel luogo grigio, e disperato, dalle forme, seppur sinuose, di un rigore evidente, potesse mai permettere, invece, quel meraviglioso germinare di vita, quel pullulare di gente tra la musica degli stereo, il chiasso degli skateboard che atterranno dopo un salto sul terreno e il verde di tutta la natura tutta intorno. Più mi addentravo in questo fiume umano e più capivo che questa architettura, proprio come le forme di Balliano, fosse esattamente ciò che Niemeyer stesso ha definito nel suo libro/testamento Il mondo è ingiusto: “Un pretesto. Importante è la vita, importante è l'uomo, questo strano animale che possiede anima e sentimento, e fame di giustizia e bellezza”.
Osservando quindi il lavoro di Davide, rivedo molte delle dinamiche di questa architettura, e come in essa, anche nelle geometrie di Balliano si intravede la vita e il suo germinare. Svuotandosi di ogni possibile orpello decorativo, le forme conquistano i territori perfetti delle geometrie lineari, del colore puro, come pure, al contrario, i fremiti imperfetti delle sbavature materiche e dei bianchi perlati, in un salire e scendere tra il finito e l’assoluto. Forme di estremo rigore e di spregiudicata isteria, dove la vita non si contiene più, non perché ne venga figurata molta, ma perché non essendoci per nulla la cerchiamo in ogni dove. Disperatamente la vediamo sbordare dai limiti erosi di quelle fasce nere, come luce accecante che brilla da dietro. Strutturate così come le vediamo, le forme vivono nell’intermittenza di movimenti e stasi, attraverso cui tutto ciò che appare fermo e composto, alla fine si anima inaspettatamente, e dove la disumanità della geometria, come mi scrive Balliano, si “scioglie in un unico accordo perfetto. Il mio lavoro è quella nota, nel bianco, per sempre”.
English version
The Sublimation of Technique
by Alessandro Facente
In the work of Davide Balliano, I am fascinated by that mechanism that allows the formal dimension, and particularly its minimal geometries, to expand at such a level as to go beyond their formalism itself.
I have always asked myself the following questions. What is triggered in retinal interaction, prompting the need to prove beyond what is already evident in the work? What is triggered in those lines, which as they curve give rise to something more ideal than what the resulting optical spirals are already, on their own, capable of expressing? What happens, in short, in the observer, when having been patiently reproduced by hand those geometries are covered by a vaporous layer of white gesso that only vaguely reveals the forms below? And what, finally, convinces us – though without an evidence of its trace – that what is there to be seen are not those planes, volumes and lines, but what those planes, volumes and straight lines suggest to our imagination?
The answer lies in what we can define as a slippage between the formal and the conceptual dimensions. And it is possible in the moment in which technique becomes the essential tool through which the image is treated to evolve from a formal condition to a sublimated condition.
Describing the compositional structure of the works in question may help to illustrate the meaning of this interpretation. Though appearing, for example, as a flat surface, the work of Balliano is instead the result of a long, laborious technical process connected to a time span paced by various passages that coincide with the creation of a structure. Up close, we can notice that the layers of paint and gesso accumulate over each other in a chronological sequence of micro-thicknesses. The final form is therefore the revelation of a path, which starting from the surface of the panel gradually expands outward.
This mutation of the image effected by the succession of the materials used is accompanied by the graphic composition of the subject “portrayed,” which though remaining familiar for its elementary expressive quality, comes alive on a retinal level, hypnotizing the eyes with elusive kinetic reflections.
Thus it transpires that already in the compositional phase, the work readies itself for a narrative intrinsic to it, taking us into what instead of being extrinsic leads us into its transformations, visual evolutions and perceptive contradictions. In short, it is the awareness of all this phenomenology that produces the foremost, truest narration of the work.
In his Tractatus Logico-Philosophicus (1921), Ludwig Wittgenstein defines the world as being “determined by the facts, and by their being all the facts,” and finds the meaning of the picture “in the way […] the elements of the picture are in spatial relation to one another.” In this sense, a speleological approach is suggested right from the foundations of the construction of the work, bringing to light the essential interplay of its “facts” and “relations.” This puts the work into a more argumentative trajectory, permitting a reading of greater complexity capable of taking the objective formal expression towards an analysis of those possible contents that make the narration also subjective, thus taking on philosophical but also political, social, even spiritual attributes.
It is no coincidence, in fact, that in one of our conversations in his studio Balliano often mentioned his intention to make the work more contemplative. The goal is to push the visual to the total annulment of all the possible references to the real, to become an autonomous image, totally free of an idea of attained reality; alien, that is, to any reality that is not the one that the image itself produces, appearing for how it is expressed and how it is received by the viewer. The result is an absolute device, whose language is independent of any known circumstance; a vehicle to discover an ulterior, as yet unknown subject, abstract and figurative at the same time, that though it exists in the imagination does not yet exist in reality.
Similar thinking can be seen, previously, in Gerhard Richter, who at the time of Documenta 7 (1982) wrote about abstract art as a vehicle to “gain access to the unvisualizable, the incomprehensible, using forceful visual immediacy to depict the nothingness. Accustomed to images in which we recognize something real, we refuse to consider mere colors (however varied they may be) as visualized objects. We prefer, instead, to accept the fact that we are seeing the invisible; that which has never been seen before and that is not visible. This is not some kind of an abstruse game, but a true necessity; the unknown frightens us, but it also fills us with hope, so we accept images as a possible means to make the inexplicable more explicable, or at least more accessible.”1
In Balliano the unvisualizable dimension is surpassed in a way for which – thus conceived – the image takes on a status of emancipation. For this reason, his painting is never just the illustration of a form and a line, but the precise project of a form and a line. In this sense abstraction, figuration and minimalism act as a single language, which of those forms and lines gives rise to the principle, the foundations and substance of their visual structure. Real presences that occupy a space with the same resolve as a physical object, declaring their existence with the evidence of a visual witnessing.
In the end, Balliano confronts us with geometries that are apparently far from reality, which nevertheless are essentially its absolute synthesis. And this pursuit of the absolute of forms contains all the meaning of that analysis “in the depths of man” of which he constantly speaks in our conversations. There is much that is mystical, contemplation of the sacred, as he often insists, in the obsessive dualism of those blacks and whites, which ideally repeat to go beyond the borders of the panel, aiming at a sacred eternity, with all of its ritual impact. Along these lines, I remember when Balliano told me: “I am interested in the anachronism of making things by hand,” summing up everything there is to know about his work, including the everyday practice of painting, its times, its layers.
So the geometric forms we witness, though cold and inhumanly remote, in their sublime dimension and almost ascetic chastity, in their simplicity and modest purity, have much that is human, because they were made with the human desire to generate.
All of this would be impossible if, instead, the work were developed on the premises of automatism. The pieces would not have the same weight, and their meaning would be radically changed, were the artist to proceed mechanically, following – for example – the rules of screen printing.
Eliminating the manual process at the basis of his practice, the slow preparation of the stucco, followed by the graphite drawing and then the ink, the fields of black gesso, the final glaze of stucco to veil the drawing which then, sanded away, again reveals the image, again granting us access to a universe of scratches and coagulations of matter. Doing without all this industrious effort, he would lose precisely that dedication that is applied to take the world to the balancing point between perfection and imperfection, rendering human what apparently is not.
We have discussed these things at length in the studio, and Balliano has connected a very precise concept to them, that of the crisis, or as he puts it the “stupefaction” of western man. The decay of civilization, its impulses and ideals – often originating in beliefs, also of a religious nature, on which past generations were instead deeply shaped – represents a void to navigate inside new, still faraway principles, in which man has stopped representing something, winding up – on the horizon of technique – by vanishing almost completely.
In this context, the idea of proportion becomes a crucial element to understand the essence and the meaning of those geometric forms that occupy the entire surface of the panels made by the artist. This relationship with proportions can be explained with a very simple example, that of cities. If we look at them from the street, they constitute a multitude of forms, sounds, lights and details, beyond human comprehension. If, instead, there is a distance between the city and the observer, we begin to understand the geometry of those same cities, and thus there is a representation that permits a comprehensible interpretation.
Hence the structures traced by the artist establish the hope that an order, a rationality, explanations, can still exist. It matters not how enormous they are or if there will ever be the possibility of fully understanding them; what matters is the presence of a point of observation that makes it possible to cultivate the instinct of the desire for comprehension. It is in this thrust that art represents a vector of elevation with respect to the failures of civilization and its evolution. The practice of the artist acts, in fact, precisely where the society cannot act. To create, that is, harmony, coexistence, juxtaposition, symmetry and life. Utopias that find fertile ground in the practice of the artist, visually calling back into discussion that fact that such principles are still possible.
When Balliano asked me to write an essay on his work I was in São Paulo, Brazil. On the afternoon when I received his e-mail I was planning to visit Ibirapuera Park, the central park of the city, where Oscar Niemeyer has created one of the most rigorous examples of architectural modernism in Brazil. Strolling on the famous walkway of 620 meters made to connect the buildings, I thought about how that gray and desperate place, with its forms that may be sinuous but are still clearly rigorous as well, could ever permit that marvelous outburst of life, that throng of people amidst music, the din of skateboards crashing to the ground after a jump, the greenery of all the surrounding nature. The more I entered this river of humanity, the more I understood that this architecture, precisely like the forms of Balliano, was exactly what Niemeyer himself had defined in his book/testament The World is Unfair: “Architecture is only a pretext. Life is important, as is man, this strange animal that possesses soul and consciousness, and a thirst for justice and beauty.”
Observing Davide’s work, I again glimpse many of the dynamics of this architecture, and I can also glimpse life and its germination in its geometry. Divesting itself of any possible decorative adornments, the forms conquer the perfect territories of linear geometry, of pure color, while conversely capturing the imperfect quivering of material smears and pearly whites, in a rising and falling between the finite and the absolute. Forms of extreme rigor and reckless hysteria, where life is no longer held in check, not because much of it is portrayed, but because in its absence we have to seek it out on all sides. Desperately we see it burst from the eroded boundaries of those black bands, like blinding light that shines behind. Structured as we see them, the forms thrive on the alternation of movement and stillness, through which everything that seems static and composed comes to life unexpectedly, in the end, and where the inhuman quality of geometry, as Balliano writes to me, “dissolves in a single perfect chord. My work is that note, in the whiteness, forever.”